Elementare, Watson.
La democrazia è una cosa, la democrazia all’amatriciana, quella cioè che usa in Italia, a Roma, è un’altra cosa.
La differenza è abissale e sta tutta nel diverso funzionamento delle rispettive burocrazie: quella inglese, per esempio, riferendomi a un modello di democrazia maturo, è una burocrazia snella, agile, poco invasiva, leale, trasparente. Quella italiana è un magma indefinibile, mediamente corrotta, pigra, interessata, scadente, indolente, prepotente, maleducata.
La burocrazia inglese è al servizio della società e del governo, quella italiana è a servizio solo di se stessa, raramente del governo, quasi mai della società.
Oltre che nella burocrazia la differenza fra la democrazia vera e quella all’italiana, sta nel rapporto maggioranza-opposizione. Da noi, infatti, sembra che debbano per legge dire cose totalmente contrastanti: se la maggioranza dice bianco, l’opposizione dirà nero. Quasi che il bene del paese non possa formare oggetto di un progetto comune, o almeno di comune produzione. La “battaglia” fra maggioranza e opposizione è tale che una parte tifa per il fallimento delle azioni dell’altra, ed è tale da estromettere dagli obiettivi il bene del paese, giacchè questo potrebbe essere il risultato dell’azione dell’avversario, arrivando a tifare perché le cose vadano male pur di sostituirsi all’avversario. Il rapporto fra maggioranza e opposizione è come un rapporto fra adolescenti viziati. Non ho mai sentito da parte di Schlein, per esempio, che Meloni abbia fatto anche solo una battuta azzeccata. Al contrario ho contato solo qualche rara ammissione di azioni positive da parte del centro destra, quando era opposizione, in favore del centro sinistra.
Ma, domanda ingenua, se stanno tutti, maggioranza e opposizione, in parlamento è perché, assieme, devono fare il bene del paese e le votazioni devono servire solo per una naturale alternanza di vedute, di progetti, di idee, di uomini.
Gli italiani, dal canto loro, vivono la loro cittadinanza come soggezione, o sudditanza, al potere; non hanno pretese perché non sentono il peso del dovere che, da solo, li indurrebbe a scrollarsi ogni forma di sudditanza. Di conseguenza, di fronte a una illegittimità, per quanto scandalosa e invasiva, o a una illiceità conclamata, invece di pretenderne l’eliminazione arrivano a sperare di poterne fare anche loro liberamente.
L’esempio tipico è quello di chi, perso un concorso a causa di una raccomandazione, briga per averne una al concorso successivo. Facile intuire che alla parola concorso può sostituirsi la parola “appalto” e così via.
Da noi, la democrazia si limita a una possibile alternanza di oligopoli, ed è angosciante notare come a un cambio di guardia in una qualsiasi amministrazione, ne consegua la sostituzione dei direttori, presidenti, commissari con i propri fedeli cagnolini che sostituiscono i cagnolini di prima, laddove, invece, l’alternanza dovrebbe essere dei i migliori con i migliori.
La democrazia bisogna coltivarla dentro di sé come senso di cittadinanza, ci si educa alla democrazia, con lo studio e l’esempio. La democrazia senza il rispetto non attecchisce, rimane una formula, uno schema, da degenerare, da violentare, con furbizia, scaltrezza e malaffare.
Da questo punto di vista l’Italia è talmente malmessa che è un miracolo se ancora riesce a stare in piedi, ma il segreto è che, in effetti, l’Italia non è mai stata democratica e continua ad accettare le prepotenze di chi comanda con supina obbedienza, ben sapendo (avendo fatto tutti il militare a Cuneo) che gli aspiranti governanti un riconoscimento, fra di loro, se lo concedono sempre, affinchè il potere si perpetui sempre nella stessa malsana forma. Qualcuno lo chiamava consociativismo. Strano che non sia stata ancora creata la norma che lo vieti. Anzi non è strano, ma è la conferma di quanto detto.
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