Che quello, ai bambini, li devi far correre e giocare.
Alla fine è una festa, un parco giochi per 510 bambini, ammettiamolo. Ogni alone, seppur sbiadito, di serietà è andato in fumo. Gettare lo sguardo, o acuire l’udito, in questi giorni di campagna elettorale dei sogni, regala la sensazione che, ormai, oltre al gioco non c’è niente.
Giovani o meno giovani che fino a ieri pensavano che il centro storico fosse il tempio del fine settimana, ora si interrogano seri sulla barriera architettonica in più, la sua pulizia o su come dargli un futuro radioso. Un festival dell’idea dell’ultimo momento da propagandare come la figata dell’anno. Tutte quelle scempiaggini che un pomeriggio che segue un lauto pranzo fra amici e parenti, produce a iosa, dalle prossime vacanze alla prossima autovettura, che sul far della sera verranno spazzati via da un principio di sobrietà, in campagna elettorale diventano concrete e realizzabili solo mettendo piede in comune.
La realtà racconta che un consigliere comunale, una sua idea, non riuscirà neanche a dirla, e anzi, non la penserà più, una volta scontratosi con la macchina dell’ente. Una macchina sempre ingolfata, tanto fumosa quanto nel concreto pachidermica ogni oltre umano o bestiale limite. Ma ora pensassero a giocare, suvvia, è un luna park, diamine.
E poi quel sentirsi finalmente protagonisti, della propria vita e di quella altrui, pfui, vuoi mettere. Quel sentirsi al centro dell’attenzione che crea assoluta dipendenza, perchè farne a meno.
Quel protagonismo che ti può anche trasformare in un Salvini che si fa riprendere mentre addenta una fetta di pizza in quei dieci minuti fra una corsa e l’altra, che sensazioni indimenticabili. Insomma quei 510 candidati, più sindaci promessi, se la godono tutta e a noi non resta che guardarli col sorriso di un papà che guarda il figlioletto cimentarsi per la prima volta con la bici senza rotelle.
La democrazia è riuscita a secolarizzare il rito della scelta del più capace a tal punto da scremare ogni forma di sacralità dal rito delle elezioni che, dovrebbero, invece, stringersi attorno ai migliori non ai chiunque.
Da momento sacro della scelta dei condottieri che renderanno bella la città, alla festa in cui ubriacarsi di puttanate dell’ultima ora.
Penso a quello che “questi a tagliare l’erba non ci pensano proprio”, icona della fantasia da candidatura dell’ultima ora e penso che forse una città meriterebbe un cincinin di più, ma poi mi accorgo che si penserà pure che sono io supponente. Del resto un comune manifesto dell’indolenza amministrativa e burocratica chiede questo tipo di approccio, estremamente popolare, decadente e scadente. Pensate, per dirne una fra cento, che, per esempio, neanche una sentenza del giudice amministrativo massimo, che impone di fare un qualcosa, riesce a corrucciare le fronti dell’apparato comunale che, con un obbligo giuridico immenso sulle spalle, si trastullano con il “fallo tu, no tu”. Ho voluto aprire una finestra sulla laboriosità comunale a caso, ma potrei aggiungere che tributi dovuti non vengono neanche richiesti -ma questo almeno è un guadagno per qualcuno, pensa te- o tante altre cose che letteralmente non è che vanno a rilento ma vanno, no, sono immobili con una dimostrata capacità di sopportare la responsabilità non come un peso, ma come un fastidio (due esempi che neanche gli uscenti consiglieri di opposizione riescono a ricordare, ammesso che le sappiano queste cose, per timore di inimicarsi i dirigenti, all’anima del coraggio e della potenza ispiratrice della loro generosità tanto sbandierata).
E allora godiamocela questa festa, chè la prossima è fra cinque anni. I candidati sparassero le ultime idee, allegramente, come dopo una bevuta di vino o birra, a lingua sciolta, tanto non ci credono neanche loro.
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