Stanchezza e malattia

Stanchezza e malattia

Uscita forzata.

Quante volte mi è toccato ascoltare oratori improvvisati esordire con un tremebondo “Mi è difficile prendere la parola dopo il dott. Ipsilon, tanto brillante da oscurare quel poco che ho da dire”, condito con una ipocrita umiltà. Ma difficilmente quelle parole sono state bugiarde, se non con riferimento al discorso che era stato fatto prima, misero come il secondo. Non so perché, quando non si ha niente da dire, sia necessario parlare per forza e convincersi anche di aver detto qualcosa con un senso.

Si parla troppo e parlano tutti.

Sarà perché non si fa più, alle scuole elementari, il gioco del silenzio; il sessantotto ha cancellato anche quella oasi educativa.

Eppure sarebbe ben straziante per la gioia sentire un bel “scusatemi, ma davvero non ho niente da dire che possa cambiarvi la serata. Vogliate apprezzare. Vi abbraccio tutti”. Io mi spellerei le mani a forza di batterle e, ci giuro, sarebbe il solo caso da meritare un euforico “bis”.

Non apparire, ecco, di questi tempi non è un’esigenza, ma un difetto grave. Tutto va ripreso, fotografato, chiunque va intervistato. Il post è il lasciapassare, intervenire è doveroso anche se non si ha coscienza esatta di cosa si stia facendo.

I social hanno avvelenato le gerarchie valoriali e provare a evitarli costituisce gesto quasi eroico o esotico, o folle, addirittura.

La sintesi opprime il ragionamento e lo spot è l’icona del non linguaggio. Riuscire a dire niente in poche righe è, del resto, più facile che dire niente in un discorso articolato. In questo, alla fine, si capisce che non hai niente da dire, mentre nello spot ci si sforza di intravedere un significato.

E quindi scrivo per me, soltanto per me.

Cronache di oggi. Riflessioni di un monaco in erba.

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