Il culto del brutto e dell’invivibile.

Il culto del brutto e dell’invivibile.

Solo una domanda: perchè?

Anatomia di un palazzo di giustizia o di un qualsiasi altro edificio pubblico.

L’architettura moderna degli edifici pubblici segue l’umore che generalmente accompagna le attività umane che vi si svolgono. Al penoso si intona il grigio, al vitale il bianco e così via.

A Potenza, per esempio, la Biblioteca Nazionale, frequentata da giovani, rasserenante, ricca di cultura, volumi, spazi, ospitale e predisposta al pubblico utilizzo, i colori sono chiari, gli ambienti luminosi, i colori morbidi e accoglienti, spicca ordine e pulizia, rispetto e gentilezza.

Il palazzo di giustizia, invece, specchiando, evidentemente, gli umori di chi è costretto a frequentarli, giammai per un motivo allegro, ma sempre quantomeno problematico, spesso tragico, gli architetti di turno hanno pensato bene di edificare un mostro di cemento grigio fumo, orribile a guardarsi. La burocrazia ha calato poi l’asso.

Come sempre accade, dove c’è burocrazia predomina il grigio, lo scialbo, il malfunzionante, la mancanza di garbo, l’inaccoglienza.

Infatti, predominano le orribili plastiche, come negli ospedali (strana assonanza), gli arredi sono standard e predomina il cattivo gusto. Armadi brutti, spesso sbilenchi, scrivanie monotone ricoperte di fascicoli, carte e l’immancabile datato computer. Nelle aule è immancabile la sedia-poltrona “zoppa”, dedicata regolarmente agli avvocati i quali, quotidianamente si vedono sottrarre la sedia comoda, la scrivania per prendere un appunto o aprire un fascicolo. Sulle panche, di per sé scomode, si è costretti a posare il cappotto, in un angolo l’ombrello, sulle scrivanie, una diversa dall’altra, le ingombranti borse, tanto che nel corso di un’udienza l’aspetto delle aule, già cupo, diventa anche disordinato. La bellezza, l’armonia sono letteralmente bandite, non accettate. I bagni sono generalmente sprovvisti di sapone e carta igienica, quasi che il loro utilizzo debba essere limitato a quelle pipì che immancabilmente sono veicolate secondo l’estro del canale di scarico. In un bagno, addirittura, in base a un imperscrutabile disegno architettonico, le porte non si aprono totalmente, impattando, a mezza corsa, con la seduta, talchè è d’uopo entrare di lato e compiere manovre strane o ardite per entrarci. Tutto suona scadente, con la peculiarità che quando qualcosa è da buttare ebbene si destina agli avvocati o all’utenza. Questa non può spogliarsi del cappotto, perché non saprebbe dove poggiarlo e considerato che spesso è destinata a trascorrervi anche qualche ora, è ben immaginabile quanto scomoda sia la permanenza. Gli ambienti sono ovviamente bui, gli ascensori spesso e a turno non funzionano e non è possibile parcheggiare, nonostante gli ampi spazi, se non per pochissimi addetti ai lavori. O meglio, forze dell’ordine, magistrati e ausiliari non hanno problemi, avvocati e utenza immancabilmente sì, quasi che la giustizia possa funzionare senza la presenza delle parti e degli avvocati.

Quel grigio, unito agli smorti colori delle plastiche, inducono tristezza, escludono letteralmente l’esistenza della bellezza, incupiscono e tendono a ingenerare pensieri di morte.

Uscire da questo luogo e rivedere il sole è come passare da uno stato di coma alla riconquistata libertà.

Ora, mi chiedo, alla luce della simile situazione di qualsiasi ufficio pubblico, esclusa la Biblioteca Nazionale, cosa induca a rendere la quotidianità sì triste e scadente. Cosa alimenti questa assoluta mancanza di ospitalità, cosa renda eccellenti la mancanza di gusto e la gentilezza. Quale perversa deviazione renda il quotidiano così ostile.

Beninteso, gli arredi cessano di essere volgarmente sciatti quando si parla delle stanze delle figure apicali. In queste gli spazi, gli arredi di qualità, appunto, i divani, le pareti vetrate si sprecano. Il contrasto sta, evidentemente, a simboleggiare la gerarchia, l’importanza del ruolo, la pochezza degli altri. La differenza fra queste stanze e il resto dei chilometri quadrati ha poco di democratico e molto di volgarmente ricco, a fronte della miseria del resto. Induce a ossequiare più del dovuto e a sentirsi piccoli di fronte al potere.

Non c’è lotta di classe che abbia mai scalfito queste differenze. Le oasi nei deserti di cemento sono previste sempre, da sempre e ovunque esista il pubblico, che esista la dittatura, la democrazia o un sistema socialista. Il “io sono io (riferito al potere, qualsiasi esso sia) e voi non siete un cazzo” è il principio fondante che consente piccole oasi di bellezza all’interno del più triste grigiore.

Ci sarà una spiegazione sociologica e antropologica a tutto questo, è evidente, strettamente collegata al grado di civiltà di ogni paese.

Pensate che solo la informatizzazione della giustizia ha posto fine al macabro rito delle cause civili. Queste si svolgevano in una maniera inimmaginabile dal di fuori: stanzette piccole nelle quali si celebravano decine e decine di cause con un inumano accalcarsi di avvocati attorno a una scrivania dietro la quale un giudice faceva fronte all’assalto. Non si è mai capito perché non si sia quasi mai tentato di renderle umane, dignitose, rispettose delle funzioni, quelle udienze. Nelle udienze penali, invece, spazi maggiori hanno sempre consentito quantomeno di respirare, non di essere rispettati, costretti, troppo spesso, a vane attese per un risultato soltanto provvisorio, tipo un rinvio o qualcosa di simile.

Non è conosciuto il concetto di “sala d’attesa” comoda e ospitale, tanto per dirne una.

Io ora mi chiedo solo e semplicemente “perché”? Se, cioè, ci sia dietro uno studio particolare con altrettanto particolari finalità, o se il tutto sia figlio solo dell’approssimazione, della mancanza di educazione e di rispetto.

La qualità della vita passa anche da queste cose, ma a noi non tocca una vita qualitativamente accettabile.

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